I ricercatori hanno identificato pattern distintivi nell'elettroencefalogramma di persone con deterioramento cognitivo lieve che non sviluppano demenza. La scoperta apre nuove strade per la diagnosi precoce e il trattamento delle malattie neurodegenerative, spostando il focus dalla riduzione del rischio al potenziamento della resilienza cerebrale.
Lo studio ha confrontato gli elettroencefalogrammi di pazienti che hanno sviluppato la demenza con quelli rimasti clinicamente stabili. Questi ultimi presentavano disturbi cognitivi lievi e biomarcatori alterati come la PET e la volumetria dell'ippocampo. I ricercatori hanno definito questi soggetti "stable resilient" (stabili resilienti).
Rossini, uno dei ricercatori, ha spiegato all'AGI la domanda di partenza: «È stato a questo punto che ci siamo posti la domanda cruciale, come mai soggetti con disturbo cognitivo lieve, quindi già a rischio, e con biomarcatori alterati come la PET e la volumetria dell'ippocampo non sviluppano la malattia?»
I risultati della ricerca
L'analisi ha rivelato caratteristiche neurofisiologiche specifiche nei soggetti resilienti. Rossini ha illustrato le scoperte: «Abbiamo osservato una maggiore capacità di sincronizzazione e di connessione dei lobi frontali per specifici ritmi cerebrali, come se queste aree fossero fortemente interconnesse tra loro, inoltre abbiamo riscontrato differenze significative nel rapporto tra ritmo alfa e ritmo delta, in particolare a livello del lobo temporale destro. Il ritmo alfa è tipico del cervello vigile e rilassato, mentre il delta è più rappresentativo delle fasi di sonno profondo».
I ricercatori considerano queste caratteristiche segni di resilienza cerebrale che permettono al cervello di compensare i potenziali danni dei fattori di rischio biologici e mantenere più a lungo le funzioni cognitive.
Le prospettive future
Il ricercatore ha sottolineato il valore strategico di questo approccio: «Lo studio dei fattori di resilienza rappresenta un approccio nuovo e strategico, non si tratta solo di ridurre il rischio, ma di identificare e potenziare ciò che rende il cervello capace di resistere. In futuro, questi meccanismi potrebbero diventare un target terapeutico, con l'obiettivo di rafforzare la resilienza cerebrale e preservare l'autonomia delle persone il più a lungo possibile».
La ricerca rappresenta un cambio di paradigma nella comprensione delle malattie neurodegenerative, che non vengono più viste solo come conseguenza inevitabile dell'accumulo di fattori di rischio, ma come equilibrio dinamico tra rischio e resilienza.
Nota: Questo articolo è stato creato con l'Intelligenza Artificiale (IA).




